Riportiamo l’articolo scritto da Paola Romanucci e pubblicato sul bolg di Alessandro Gogna (banff.it)
Scusandomi per aver trovato solo ora il tempo (ma “è il volontariato, bellezza”), cercherò di spiegare perché non credo al CAI evocato dai documenti congressuali che demanda a un’“azienda profit” di erogare servizi ai soci “e al resto del mondo”.
Perché la montagna non è un servizio essenziale, ma una scelta che è bello lasciare aperta a più opzioni: imparare a frequentarla in modo consapevole e autonomo, da soli o con il CAI, oppure affidarsi a professionisti.
C’è spazio per tutti.
Perché l’obiettivo legittimo di una soggetto professionale che “offre servizi” nell’ambito della montagna è di trarne un giusto profitto.
L’obiettivo di un volontario del CAI è di trasmettere ad altri la propria passione e conoscenza, per il puro gusto di farlo.
Un sapere modesto e limitato, se vogliamo: ma il proprio, non quello di altri.
A piedi, sugli sci, in sella a una bici o in parete, questa è forse la radice più profonda di ogni “volontario della montagna”.
Interporre i professionisti tra la passione dei volontari e i soci finirebbe per essiccare quella radice che ci identifica e ci lega, noi tutti così diversi, dentro lo stesso sodalizio.
E un CAI che scegliesse di “offrire servizi” tramite soggetti professionali sarebbe presto orientato a incontrare sempre di più la “domanda” di montagna “facile e sicura”: ciaspolate, scialpinistiche medio-facili, ferrate; perché no, utilizzo di mezzi di risalita e magari perfino eliski.
Con buona pace del Bidecalogo.
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